Home c'era una volta MTC 65: Tra sciacquabudella e sartù: lo strano rapporto dei Napoletani con il riso

MTC 65: Tra sciacquabudella e sartù: lo strano rapporto dei Napoletani con il riso

by Acquaviva
napoli nel 400

Napoli nel ‘400

di  Acquaviva

Interrogati sulla bontà del riso una serie di Napoletani, di mia diretta conoscenza o per interposta persona, vari tra loro come età, cultura, sesso e attuale luogo di residenza, la risposta ricevuta da tutti è grossomodo la stessa: una diffidenza di base nei confronti del riso. Sì, conoscono tutti il risotto (anche se non sempre lo amano e quasi mai lo preparano), diversi sono mediamente curiosi di piatti “stranieri” come paella o sushi, alcuni apprezzano persino i dolci a base di riso… ma per la stragrande maggioranza il riso in cucina ha solo tre utilizzi: il sartù, le pall ‘e riso fritte ed il riso in bianco per i malati!

cuoppo

il cuoppo napoletano

Da dove nasce questo cattivo rapporto del riso con Napoli? Eppure esiste un forte legame storico, anche se oggi del tutto dimenticato! Importato in Italia dagli Arabi, che provarono con poco successo a coltivarlo in Sicilia, per secoli il riso venne quasi solo importato: costoso al pari di altre spezie rare, era utilizzato prevalentemente come medicamento o per alcuni delicati dolci della cucina di corte. Il primo a credere nella possibile coltivazione del riso nella nostra penisola fu Alfonso di Aragona che, riuniti il Regno di Sicilia e quello di Napoli nel 1443, ne tentò la coltura nelle piane acquitrinose di Paestum. Altre testimonianze citano risaie nel ‘500 in tutto il territorio Aragonese in Italia: Salerno, Crotone, S. Eufemia, Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Cosenza… Che fine hanno fatto?

alfonso d'aragona

Alfonso d’Aragona

Nel Salernitano qualche traccia è rimasta, forse grazie alle proprietà terapeutiche che la famosa scuola medica locale attribuiva al riso come cura di molti mai e prevenzione di morbi epidemici come il colera. Il problema vero, però, è che a metà del ‘600, per un intrecciarsi di questioni di urbanizzazione incontrollata, di penuria di carne e di geniali invenzioni partenopee per trarsi da quell’impaccio, la pasta, già comune in Sicilia e in Puglia dal ‘300, dilagò definitivamente a Napoli, dove venne perfezionato un sistema di essiccazione che ne permetteva il basso costo e la facile conservabilità.

Il riso, dal canto suo, se al Nord, tra Medici e Sforza, già era oggetto di sperimentazioni per una coltivazione a grande scala, nel regno partenopeo rimaneva una coltura da piccole quantità, difficile e costosa, spesso sviluppata solo negli Orti dei Semplici di corti e conventi come pianta preziosa e medicale. La popolazione napoletana, dunque, che già lo conosceva poco, non ci mise molto a perdere completamente la relazione con questo cereale, che manteneva per loro solamente il ruolo di “cibo per ammalati”.

Quando il gusto dei Borbone con il ‘700 portò alla corte di Napoli le raffinate vivande di stile francese dei monzù, il riso apparve sulle loro tavole in veste decisamente ricca e saporita, spesso valorizzato da ingredienti locali, come appunto nel sartù. Ma per il popolino, che anche nei periodi successivi non ebbe facile accesso ad una cucina tanto elaborata e costosa, la pancia ed il palato venivano tranquillamente soddisfatti da secoli con preparazioni più economiche e dirette, che vedevano protagonisti pasta e verdure.

Con il tempo il riso passò dalle tavole nobili a quelle borghesi, e da lì, una volta crollatone il prezzo, anche a quelle popolari: ma oramai il danno era fatto, e la fama del riso come cibo poco interessante, anche ora che era a portata di mano, ne decretò di fatto il bando quasi totale dalla cucina familiare quotidiana… tranne il sacro ruolo medicale, che da panacea divenne semplicemente cibo “leggero”, adatto a malati e convalescenti.

scuola medica salerno

scuola medica di Salerno

Così, a meno che il riso non sia sovrastato da ulteriori ingredienti, come nel sartù, o confuso tra molti altri sapori, come nelle pall ‘e riso del cuoppo di frittura napoletana, sono davvero poche le ricette “tradizionali” partenopee che lo prendono in considerazione. Anche ai giorni nostri, ad esempio, nel testo base spesso citato in questa puntata dell’MTC, La vera cucina di Napoli di Jeanne Caròla Francesconi (che a visto la luce nel 1995), le ricette in tutto sono trecento ma quelle a base di riso solo sette: una sorta di risotto ripreso dal testo di Cavalcanti del 1837, tre risi lessi conditi con sughi abbondanti ed appetitosi, un riso lesso in insalata, una minestra con verdura… e due sartù!

libro

il sacro testo

Tale indifferenza è citata scherzosamente in una cantilena popolare che ha diverse versioni dialettali ma racconta sempre la stessa storia: sdegnato dai Napoletani come “sciacquabudella” qualunque fosse la dominazione straniera al potere in quel momento, il riso si offese, emigrò al nord e chiese vendetta ai monzù, che lo riportarono a Napoli travestito da sartù, rendendolo gradito “più della pasta al ragù”!

A NASCITA D’O SARTÙ
‘O tiempo vola, corre troppo ampressa.
‘O munno cagna, ‘a storia è semp’a stessa.
Napule s’a pigliava il re di Spagna?
“Giuvinò, stamm’a posto, mò se magna!”

Quann invece arrivava ‘o re di Francia,
“Stavota sì, ca ce regnimm’a pancia!”
Se, se. Cà so’venute tutte quante,
ma ‘a panza nosta sta sempe vacante.

Che dite? Non dobbiamo farne un dramma?
‘O sazio nun capisce a chi ave famma.
Simme abituate, a non avere niente.
Almeno ci’a pigliammo alleramente…

A nuje napulitane ciann’acciso,
però c’abbascio avimme sempe riso.
Ci’o purtajeno ch’e nave, all’Aragona;
però so’ sempe meglio ‘e maccarone.

Si staje diuno, sì, t’o mange ‘o stesso,
ma il riso, come piatto, è un poco fesso.
Lesso, c’o burro, in bianco, è consigliato
espressamente, quanno staje malato;

ma si staje buono, detto con creanza,
che ten’ea fa, di questo sciacquapanza?
E’ meglio ca te faje nu piatt’ e pasta!
‘O riso s’a pigliaje. Dicette “Basta!

Sai che faccio? La lascio, sta città,
che non mi apprezza, e mai m’apprezzerà.
Stu riso era davvero fino fino.
Se ne fujette al nord, verso Torino,

e là, poiché non era affatto fesso,
crescette buono, e avette assai successo.
Ma Napule ‘a teneva dint’o core.
“Napoletani, voglio il vostro amore!

I’ so tuosto, guagliò: saccio aspettà.
Nu juorno, prim’o doppo, aggia turnà!”
L’anne vanno veloce comm’o viento.
Stammo oramai nel mille e setteciento,

e nel Palazzo mò stann’ e Francesi.
Nuje? Dint’e viche: famma, e panni stesi.
Ma stu sfaccimm’e riso, che ce tene!
’A ditto ca turnava? E mò mantene.

A sta là ‘ncoppa, al nord, nun cià fa chiù.
In segreto s’incontra cu Monsù
(‘o cuoco d’e francese): “E’ il mio momento!
Mi devi fare un bel travestimento…

Dai, truccami con arte e fantasia:
nisciun’ adda capì ca so’ semp’io…..”
“Ne pas paura – le dicett’o cuoco
franco-napulitano- Sce vo poco:

assiem’a te – le risò – je sce mette
melanzane e pesielle, e deu purpette,
e poi, per non lasciarle troppo seule,
un petit peu de sause de pomarole.

Ci’o mette tout n’ coppa : là, sur-tout.
C’est la nouvelle cuisine! Le nom? SARTU’!”
‘O sartù zitto zitto, chainechiane,
trasette ‘a casa d’e napulitane.

S’ o mettetten’ annanze, e ditto ‘nfatto
se mangajeno ‘o riso, e pure ‘o piatto.
“Chillu riso scaldato era na zoza.
Fatt’a sartù, ma è tutta n’ata cosa.

Ma quale pizz’e riso, qua timballo!
Stu sartù è nu miracolo, è nu sballo.
Nennì, t’o giuro ‘ncopp’a chi vuò tu:
è chiù meglio d’a pasta c’o rraù!”

Le recenti aperture nel centro di Napoli di una risotteria e di un ristorante che offre piatti di riso di tutto il mondo indicano che forse, tra le nuove generazioni, questo pregiudizio nei confronti del riso si stia un po’ sgretolando. Alcuni dei miei intervistati, però, sono di opinione diversa: anche se uno dei ristoranti sta nei Quartieri Spagnoli si tratta certamente solo di locali per turisti!

 

PS: nell’articolo scrivo pall’e riso in corsivo perché dizione solo locale, a differenza del sartù, da tempo entrato nel vocabolario italiano.
PPS: la frittura napoletana ha componenti come, appunto, le palle di riso o gli scagliuozzi di polenta, che per la concezione odierna appaiono di derivazione molto “nordica”. Sbagliato! Sono entrambe mediterranee per storia: di derivazione arabo-siciliana le prime, per eredità golosa, dalla tradizione delle puls di miglio di epoca addirittura romana i secondi, per necessità di cibo a bassissimo costo e grande resa.

la filastrocca è presa qui

la foto del cuoppo qui

il ritratto di Alfonso d’Aragona e l’immagine di Napoli nel ‘400 qui

l’immagine della scuola di Salerno qui

4 comments

http://bigessaywriter.com/blog/page/16 27 Febbraio 2018 - 8:34

Thus, a population that already knew very little did not take long to completely lose touch with this grain, which only supported the role for them.

http://www.getessayeditor.com/blog/page/5 22 Aprile 2017 - 8:56

I see you are ready to share a lot of useful information from your life, including travellings! thanks for these facts!

ilaria lotti 21 Aprile 2017 - 16:26

un articolo sul riso non poteva essere che tuo! veramente molto interessante! grazie

Katia zanghì 21 Aprile 2017 - 15:38

Ho trovato il tuo racconto sul riso non solo interessante, ma piacevole e divertente . Grazie,Acquaviva!

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